Hanno scritto di lui:
Le notizie su Brugnaro – figura storica della poesia operaia in Italia, ma prima ancora lavoratore e delegato sindacale al famigerato Petrolchimico di Marghera, e ora da poco in pensione – ci dicono anche che alcuni decenni addietro sia Ungaretti che Zanzotto (il secondo, se ben ricordo, firmando la prefazione ad un suo libro) manifestarono attenzione alla sua scrittura: scrittura primaria di lotta, lessico rude e sbrigativo, strutture metalliche di parole d’urto, violente contestazioni ritmiche e sillabiche da bacheche, da muri, da piazze.
L’Italia che scrive versi, per bocca di due tra i suoi autori più alti e ardui, rompeva il silenzio, dimostrando almeno il merito di non voler rimuovere il caso Brugnaro.
(Giorgio Luzzi, "Giornale del popolo", Lugano, 1998).

[...] Ferruccio Brugnaro non ha bisogno di essere catalogato, e relegato in una visione ideologica della poesia. Anzi, ha semmai bisogno di prendere sempre più coscienza di sé e dei suoi mezzi, e di affinare il suo modo di stare nel mondo e "rapportarsi al reale". (Franco Loi, "Il Sole 24 ore", 1993).

Esiste un "caso" Brugnaro? Forse sì, ma certo sarebbe meglio che non esistesse – sarebbe meglio, cioè, che riuscissimo a leggere i testi di questo operaio con l’attenzione specifica che meritano, senza lasciarci forviare o distrarre da ciò che sappiamo, o crediamo di sapere, sul conto del loro autore e badando, invece, a ciò che essi stessi ci dicono sulla situazione sua e dei suoi compagni di lotta.
Sarebbe, oltretutto, un modo per cominciare a capire che la comunicazione letteraria è (o dev’essere) di tutti prima, e più, di quanto non sia (o debba essere) per tutti; in altre parole che se vi è un modo per politicizzare e gestire politicamente la letteratura, esso non consiste tanto nel far leggere quanto, appunto nello scrivere
. (Giovanni Raboni, "Tuttolibri", 1976).

Nella poesia di Brugnaro appare una realtà ambientale che ha raccapriccianti affinità con quella della guerra: è la realtà della fabbrica, o almeno di certe fabbriche, oggi. Non è esagerazione affermarlo. Ci sono in questi versi le mattine di livido inferno dopo i turni, i fumi e rumori che disintegrano, le morti a stillicidio, l’indefinibile e inarrestabile trasformazione degli uomini in cosa.
Si ha quindi, in termini attuali, un’esperienza analoga a quella di Ungaretti nelle trincee del Carso, radicalizzata ora per una mancanza di “eccezionalità”, per un sovrappiù di banale che la permea, per il vago senso del suo non aver mai fine, per il suo cogliere la degradazione, peggio che “a pietra” a materiale plastico-chimico.
(Andrea Zanzotto, "Il Giorno", 1973).


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